Dissertation - Poena Damni - O Protos Thanatos (Excerpts from I to XIV)

University of Τrieste

Published: Feb 2004
Location: Trieste ITALY
Reviewed by: Alessandro Lo Coco
Language: Italian
Review of book: THE FIRST DEATH
“……Ma cosa c’ è di più bello di farsi fottere dai sogni e poi urlare al cielo vaffanculo, chi se ne frega. Nessuno può immaginare quanta ricchezza c’ è in certe sconfitte. Conta il coraggio nella partita della vita. E non mi importa se per colpa di altri sono diventato un inferno. Ho il cuore che da sempre siede a tavola con le posate d’argento.” ( Ezio Vendrame. Vietato alla gente perbene)

I. PREMESSA

Questa premessa si propone, con uno sguardo ad un passato relativamente recente ed in modo necessariamente sintetico, di fornire una linea di sviluppo dell’attività poetica in Grecia negli ultimi decenni del secolo scorso.

Prendendo come data di riferimento la caduta del regime militare dei colonnelli del 1973, ed il ritorno alla democrazia e alla costituzione repubblicana con le elezioni del 1974, occorre dire che cambia in Grecia non solo lo scenario della politica, ma ogni aspetto della vita culturale e sociale. Sette anni di dittatura hanno pesantemente oppresso gli intellettuali, ridotti al silenzio, all’esilio, al carcere duro. Tornata la libertà molti poeti e scrittori delle generazioni precedenti sono ancora sul campo, e danno ancora il loro contributo alle lettere greche, Rítsos, Elítis, ma anche Embiríkos, Gátsos, Engonópoulos, per non citare che i più conosciuti. I giovani non hanno sperimentato il Maggio Sessantotto, ne hanno sentito quel tanto che è penetrato tra le rigide maglie del regime, ma tanto è bastato per spingerli alla rivolta e nel Novembre 1973 hanno occupato il Politecnico per tre giorni. La loro rivolta, finita con l’irruzione della polizia e gli studenti morti, ha segnato comunque, anche a motivo del mutato clima internazionale, la fine della tirannia.

La situazione che si viene a creare in Grecia, da un punto di vista culturale, è alquanto confusa e contraddittoria; i giovani, seppure divisi tra “politicizzati” e “apolitici”, si ritrovano uniti nel contestare tutto e tutti; è come se volessero fare tabula rasa di ogni esperienza precedente.

Questa frattura, in ambito letterario, “propone espressioni e tecniche senza alcun collegamento con il passato, e nello stesso tempo, spalanca un orizzonte mai attraversato, spinge a sperimentazioni neppure immaginate prima…nessun richiamo alla linea nazionale, ormai persasi nel tempo; l’elemento politico ed ideologico è scaduto in sarcasmi colmi di delusione e disgusto, le tentazioni liriche e quelle spiritualistiche sono considerate anacronismi e passatismi…perfino ogni riferimento ai maestri (Seféris, Rítsos, Elítis) viene respinto quasi con albagia e fastidio.” (1)

    Questi poeti e scrittori degli anni ’70, nati negli anni del secondo conflitto mondiale e della guerra civile, sono stati e si sono definiti in modi diversi:
  • Η νέα γενιά (La nuova generazione) in una antologia poetica del 1971 a cura di Stéfanos Bekatóros e Alékos Florákis, con poesie che vanno dal 1966 al 1970 (2) ;
  • γενιά tou Πολυτεχνείο (Generazione del Politecnico). In un’ antologia in due volumi del 1979, uno di poesie e l’altro di prosa, a cura di G.A.Panaghiótou (3) , essi si definiscono “Generazione degli anni ’70”.


Note:

1) Tino Sangiglio, Poesia Greca Contemporanea – Considerazioni e testi, Assessorato alla cultura, Trieste 2000, pag 102.

2) S. Bekatoros, A. Florakis, I Néa Gheniá, Kedros, Atene 1977.

3) G.A.Panaghiótou, I Gheniá tou ’70, tomo I, Poesia; I Gheniá tou ’70, tomo II, Prosa, Atene, 1979.


Nell'introduzione Panaghiótou, accennando al fatto che, quanto alla narrativa, “la scrittura punta sul discorso piuttosto che sulla trama”, a proposito della poesia dice: “Il sostrato iniziale e determinante per la sua (della generazione del ’70) esistenza è la contestazione, con una relativa trasfusione della Beat Generation.

Si contestano i valori ideologici e sociali consacrati, senza eccezione, come pure, globalmente, tutte le correnti estetiche e letterarie non innovatrici, in rapporto alle loro prescrizioni” (4) .

Nel 1989 il critico Aléxis Zíras, inserendo quelli che considera i più validi esponenti degli anni ’70, intitola la sua antologia Genealogikaé - gia thn poiéhsh kai touv poihteév tou ’70 (Genealogia - sulla poesia e sui poeti degli anni ’70).

Sempre nel 1989 un altro critico, K. Papagheorghíou , pubblica H geniaé tou ’ 70. Istoriéa, poihtikeév diadromeév (La generazione degli anni ’70: storia, percorsi poetici).

Contrariamente ai prosatori, che faranno rivivere l’esperienza della dittatura nei loro scritti, i poeti, passato il tempo della contestazione dei valori e dei fenomeni di rivolta contro le istituzioni, scoprono l’ambito privato della poesia e procedono in ordine sparso, cercando di elaborare una propria poetica sia dal punto di vista dei contenuti che della forma.



Note:

4) M.Vitti, Storia della Letteratura Neogreca, Carocci, Roma 2001, pag.403.


Si assiste pertanto al proliferare di opere poetiche e l’elenco di coloro che scrivono versi è veramente lungo.

    Possono esser accomunati per la loro poesia di crisi e di abbattimento morale:
  • Leftéris Poúlios (1944): sbeffeggia i falsi valori morali e si scaglia contro gli effetti del consumismo;
  • Maria Kirzáki (1946): abbattimento morale, desolazione, disperazione;
  • Anastássis Vistonítis (1952): esponente di spicco del movimento della disperazione.
  • Per gli atteggiamenti dissacratori, scettici e cinici, espressione di un senso di vuoto, di nullità, solitudine e fallimento:
  • Ghiánnis Varvéris (1955): temi della morte e del deperimento di ogni cosa;
  • Aléxis Traianós (1944) morto suicida nel 1980: fatica e inutilità del vivere, disagio esistenziale, realtà ed incubo;
  • Ghiánnis Patílis (1947): ostile ai vizi sociali e al perbenismo;
  • Vassílis Steriádhis (1947): singolare per il modo in cui struttura i suoi versi che, con un procedimento surrealistico e atteggiamenti paranoici, disorientano i lettori, quasi a significare che anche la poesia è raggiunta dall’opera di demolizione;
  • Maria Lainá (1947): temi dell’amore e della morte;
  • Andónis Fostiéris (1953): avvenimenti intimi e segreti, visione tragica del vivere, angoscia esistenziale resa con abbondanza di simboli;
  • Ghiánnis Kondós (1943): fatti personali nello scenario di un mondo inquietante; logorio del corpo e dell’anima;


  • Násos Vaghenás (1945): ironico verso i valori della vita e della letteratura; versi in cui fa capolino la morte,
  • Dimítris Kalokíris (1948): si distingue dai precedenti per il gusto del paradosso e del fantastico, prendendo come modello il surrealismo greco. Ha scritto testi in prosa e versi;
  • Michális Ganás (1944): ritorno alla tradizione, i temi della sua poesia sono gli affetti familiari, che comprendono sia i vivi che i morti. Pur affondando nella tradizione del popolo, l’opera appartiene alla tradizione colta.

Per quanto riguarda i poeti che hanno pubblicato dagli anni ’80 ai nostri giorni, sono limitate, tranne per alcuni, le notizie e provvisori i giudizi della critica. Su questo periodo sono state pubblicate raccolte poetiche quali: Grafhé 1980-85 ( Scrittura 1980-85) a cura di Petros Rezís per la poesia e Kostas Liondís per la prosa; Anqologiéa suégcronhvellhnikhév poiéhshv del 1989 (Antologia della poesia greca contemporanea) a cura di Ilías Kefalás, autore di un precedente volume H geniaé tou idiwtikoué oraématov del 1987 (La generazione della visione privata); Poihteév thv neoéterhv geniaév del 1992 (Poeti della generazione più recente) di Aléxis Zíras; e in ultimo Anqologiéaneoéterhv ellhnikhév poiéhshv del 1980-97 (Antologia della più recente poesia greca) a cura di Evripídhis Gharandúdhis.

La conclusione più ovvia è che ci troviamo in presenza di tendenze poetiche molteplici e non ancora ben chiare. La critica, nel tempo a venire, giudicherà quali di queste voci inserire nella storia letteraria.


Tra coloro che passeranno al vaglio dei critici e del gusto del pubblico c’è senza dubbio il giovane Dimitris Lyacos.

Tradurre la sua opera non è stato facile, sia per la difficoltà intrinseca dei suoi scritti, sia per la mancanza di consistenti supporti bibliografici e critici.

Ringrazio chi mi ha suggerito e guidato nell’analisi generale dell’opera di Lyacos e nella traduzione, dal Greco moderno in Spagnolo ed Italiano, della terza opera della sua trilogia, O Prótos Thánatos, cioè a dire la professoressa Ana Cecilia Prenz, docente di Lingua e Letteratura spagnola e la professoressa Marcheselli Lucia Loukas, docente di Lingua e Letteratura neogreca. Un grazie particolare all’autore, più volte da me contattato, con il cui aiuto ho portato a termine questo lavoro.


II. BIOGRAFIA

Dimitris Lyacos è nato ad Atene il 19 Ottobre 1966. Dopo aver affrontato gli studi classici ha studiato Giurisprudenza all’Università di Atene conseguendo la laurea in Legge.

Subito si è trasferito in Italia ed è vissuto a Venezia negli anni 1987 – 1991. Trasferitosi a Londra nel 1992 ha frequentato studi post lauream all’University College London, Faculty of Arts, Department of Philosophy fino al 1994, specializzandosi in Filosofia analitica, epistemologia e metafisica, filosofia presocratica e Wittgenstein.

Portato per la letteratura, la filosofia e l’arte più che per l’attività giuridica, ha cominciato a scrivere fin dal 1986 e ha pubblicato l’ultima opera della trilogia Poena Damni nel 1996.

Numerosi i suoi viaggi non solo in tutta Europa ma anche all’estero: a Cuba nel 1995, in Tanzania nel 1998, a New York e in altre città americane nel 2004 sempre in occasione di presentazione e lettura di parti delle sue opere.

Tutt’oggi vive a Londra con frequenti ritorni ad Atene e spostamenti in tutta Europa per divulgare la propria opera letteraria. Spesso è ospite di rassegne poetiche, festival internazionali di poesia e rappresentazioni teatrali in diversi paesi.

Attualmente è impegnato nella pubblicazione della seconda opera della trilogia, NYKTIVÓI, in inglese, e nella pubblicazione di Z 213ÉXODOS, rifacimento del primo libro della trilogia.


PUBBLICAZIONI VARIE

L’opera di Dimitris Lyacos, tradotta in Inglese, Italiano, Tedesco è stata presentata ampiamente in Europa e negli Stati Uniti. Adatta per forma e contenuto ad essere anche recitata e rappresentata con tecniche teatrali, essa ha avuto diverse performances in parecchi paesi europei. Le sei maschere dell’artista austriaco Friedrich Unegg, scolpite per illustrare O Prótos Thánatos, riprodotte sia nel testo greco del 1996, sia in quello tradotto in inglese da S. Sullivan del 2000; i dipinti della greca Joanna Delfino, per illustrare Nyktivói; la realizzazione di uno spettacolo di luci, immagini, recitazione di Nyktivói nel corso del 2004, sono testimonianza della possibilità di trasposizione dell’opera di Lyacos in altri campi dell’arte.

LIBRI:
    La trilogia Poena Damni è stata pubblicata come di seguito:
  • Atrapoév h deleastikhé ( Atrapós i deleastikí) , Poesia, Ed. Dioghénis, Atene 1986.
  • Nyktivòi , Poesia, Ed. I ekdòsis ton fìlon, Atene 1989.
  • Poena Damni, ( Ο πρώτος θάνατος) me exi maskes tou Friedrich Unegg. – Epìmetro. A. A. Psiloghiannopoulos, Ed. Odós Panós, Atene 1996.
  • Poena Damni, (The First Death) , with six masks by Friedrich Unegg, tradotto da Shorsha Sullivan, Shoestring Press, Nottingham 2000.
  • Nyctivóe , (Originale greco e versione tedesca), tradotto da Nina Maria Jaklitsch, CTL Presse Germania, Amburgo 2001.


PERIODICI:
  • Ο πρώτος θάνατος (O Prótos Thánatos), IV – V, in “ Grafhé ” (Grafì), n. 30, Larissa 1995.
  • Ο πρώτος θάνατος (O Prótos Thánatos), II – III, in “ Euquénh ” (Efthìni), n. 284, Atene 1995.
  • “Il Portolano”, Firenze, n. 4 Ottobre – Dicembre 1995, pag. 9 e pagg. 11 – 13. Traduzione di O Prótos Thánatos di Emanuela Perrone.
EVENTI E RAPPRESENTAZIONI:
  • Presentazione di O Prótos Thánatos a cura della Fondazione per la Cultura Ellenica e l’ Istituto di Cultura Austriaco, Londra, 11 Ottobre 1996.
  • Nyktivói , illustrazioni di Joanna Delfino, Mostra presso City and Guilds della London Art School, Giugno 1996 .
  • Nyktivói , 1° Atto, rappresentato alla October Gallery, in collaborazione con De Nova Da Capo Records e La Fondazione per la Cultura Ellenica, Londra 15 Maggio 1997.
  • Presentazione di O Prótos Thánatos, all’ Ateneo Veneto di Venezia, in collaborazione con il Consolato Austriaco di Venezia e l’Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini di Venezia, 31 Ottobre 1997.


  • Nyktivói, 1° Atto, rappresentato alla Andipa Gallery di Londra nel contesto del festival di Grecia in Gran Bretagna, con il patrocinio dell’Ambasciata di Grecia a Londra, 28 Maggio 1998.
  • Conferenza su O Prótos Thánatos, Università di Trieste, con il patrocinio del Consolato di Grecia a Trieste, 20 Marzo 2000.
  • Presentazione di O Prótos Thánatos tradotto in Inglese, libreria Patáki, Atene 21 Aprile 2000.
  • Presentazione di O Prótos Thánatos,(The First Death), organizzata dall’Ambasciata di Grecia a Londra, 3 Luglio 2000.
  • Presentazione di O Prótos Thánatos, (The First Death), organizzata dall’Istituto dei Cultura Austriaco, Londra 7 Novembre 2000.
  • Una lezione sul tradurre poesia (MA Seminar), con Tassos Denegris, Univesity of Nottingham-Trent, 19 Marzo 2001.
  • O Prótos Thánatos , (lettura di poesia), Compendium bookstore, Atene, 26 Aprile 2001.
  • Una lezione sulla poesia come comunicazione. Università di Trieste, 18 Maggio 2001.
  • Presentazione di Nyktivói (Edizione in greco – tedesco), alla Cinquantatreesima Fiera del Libro di Francoforte, 11 Ottobre 2001.
  • Nyktivói , Presentazione a Londra, Andipa Gallery, 23 Febbraio 2002.
  • The First Death , Una lettura alla Tate Library, Londra, 7 Giugno 2002.


RIVISTE SCELTE – ARTICOLI:
  • A.A. Psiloghiannopoulos, Poena Damni – Epiémetro , ( Un’introduzione a Poena Damni), Odós Panós, Atene 1996.
  • Dr. E. Doukas, Unegg’s masks in the context of Lyacos’ poetry, Odós Panós, Atene 1997.
  • Prof. B. Rosada, On the First Death, Characteristics of Dimitris Lyacos’ poetry, Shoestring Press Birmingham 2000.
  • Jena Woodhouse, Staving off the extinction of contemporary English poetry, International Herald Tribune / Kathimeriní, 20 Aprile 2000.
  • Jena Woodhouse, Lyacos: A feast of all fruits, International Herald Tribune / Kathimeriní, 4 Maggio 2000.
  • Robert Zaller, Journal of Modern Greek Studies, John Hopkins University Press, Nottingham, Ottobre 2001, vol.19, pagg. 283-286.


III. LA TRILOGIA

III. 1 Z213: ÉXODOS
III. 2 NYKTIVÓI
III. 3 O PRÓTOS THÁNATO


III. LA TRILOGIA

Lyacos si presenta sulla scena letteraria dando alle stampe nel 1986 la composizione Atrapós i deleastikí (1) , Nyktivói (2) nel 1989, l’opera Poena Damni, con il sottotitolo O Prótos Thánatos, corredata di sei maschere dello scultore austriaco F. Unegg, nel 1996 (3).

Le opere, che costituiscono la trilogia con l’unico titolo di Poena Damni, sono, al di là della metafora del viaggio, per di più in termini oscuri e di non immediata comprensione, la descrizione dell’esistenza umana, che ha un suo inizio, svolgimento, fine. Carattere peculiare sembra essere il pessimismo sulla condizione umana, apparentemente dettato dall’adesione ad un credo filosofico che non fornisce certezze, né umane, né tanto meno trascendentali, sicché l’uomo quotidianamente vive la tragedia di chi, fornito di razionalità, pensa che gli sia possibile darsi ogni risposta, attingere ogni forma di sapere, specie per quanto riguarda gli interrogativi ultimi.



Note:

Dimitris Lyacos, Nyktivòi, Ed. I ekdòsis ton fìlon, Atene 1989.

Dimitris Lyacos,Poena Damni, (O prótos thánatos) me exi maskes tou Friedrich Unegg. – Epìmetro. A. A. Psiloghiannopoulos, Ed. Odòs Panòs, Atene 1996.


Lyacos tenta, a modo suo, di sciogliere i nodi con tre opere che osservano l’iter del protagonista con una tecnica ed un genere letterario diverso: narrativi per la prima, teatrali per la seconda, poetici ed iconografici, in quanto sequenza di monologhi- immagini, per la terza.

Il titolo della trilogia Poena Damni, rinvia alla Summa theologiae di San Tommaso d’Aquino, là dove parla di “poena sensus” e “poena damni” (4) , specificando che la prima è la pena fisica dei dannati, la seconda quella a cui è sottoposta l’anima. A ben riflettere questa seconda pena, questa condanna, consiste in una gravissima sofferenza spirituale: non avere speranza di vedere Dio. A questa distinzione pensò certamente Dante quando, scrivendo il IV canto dell’Inferno e ponendo nel Limbo i bambini non battezzati e gli spiriti savi, fa dire allo stesso Virgilio: “Per tai difetti, non per altro rio, / semo perduti, e sol di tanto offesi / che sanza speme vivemo in disio” ( 5) . È la seconda morte, quella verso cui, dopo la prima, cioè la dissoluzione del corpo, va l’anima se giudicata indegna della visione beata di Dio. Nel titolo della trilogia, c’è da parte del poeta il desiderio di riscoprire nel mondo la speranza, per dare un senso all’agire umano nella prospettiva di evitare, da un lato la dannazione eterna dell’anima, dall’altro l’annullamento totale del corpo.



Note:

4) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Alba Ed. Paoline, Roma 1962, Parte II, Q.79, art.4, arg.4, pag.1414: “Praeterea, maior poena est poena damni, scilicet carentia visionis divinae”… Ivi, Parte III, Q.1, art.4, arg.2, pag 1868: “Praeterea peccato originali non debetur poena sensus, sed solum poena damni”…ed ancora ivi: Suppl. Parte III, Q. 69, art. 6, pag.2608.

5) Dante, Inferno, a cura di Bianca Garavelli, Ed. Bompiani Per Le Scuole Superiori. Mi. Canto I V, vv. 40-42, pag. 52.


III. Z213: ÉXODOS

Il primo lavoro, ATRAPÓS I DELEASTIKÍ ha cambiato nome in Z 213 ÉXODOS (1). Il titolo completo ha significato oscuro, per cui il lettore può interpretarlo in modo diverso: la via che il protagonista percorre, un settore geografico, il numero di detenzione, ma la parola “Éxodos” dice con chiarezza che si tratta di un’uscita. La mente va all’episodio biblico dell’Esodo degli Ebrei dall’Egitto, divenuto per loro terra ostile da cui fuggire, e ci spinge ad istituire un parallelo tra il loro desiderio di ritornare nella terra promessa ed il viaggio intrapreso dal nostro protagonista. L’opera è in ultima analisi un diario che esprime il suo bisogno di evadere da un luogo che può sembrare una città distrutta dopo un bombardamento, un ospedale, una prigione. L’evasione reale è in effetti metafora di un viaggio tutto interiore; il “fuori” in cui cercare la possibilità di creare un proprio mondo e di stabilire comunicazione con gli altri, diventa il “dentro” da esplorare. Il protagonista fugge da questo luogo e si reca in una stazione: qui trova un tizio che vende cappotti militari dismessi, ne compra uno e in una tasca trova una strana Bibbia. Essa contiene infatti delle pagine di testo sacro, altre con degli appunti scritti probabilmente dal precedente possessore, altre ancora bianche. Salito in treno comincia a descrivere il proprio viaggio, annotando ciò che gli capita, in un dialogo solitario ed immaginario con chi precedentemente aveva scritto gli appunti.



Note:

1) L’opera non è stata ancora data alle stampe. Sappiamo dall’autore che è il nuovo primo libro della trilogia, per il cui contenuto sono state riutilizzate parti di Atrapós.


Durante il viaggio trova per terra, nello scompartimento del treno, un altro libretto dal titolo O Prótos Thánatos e lo mette in tasca assieme alla Bibbia. Alla fine del viaggio, giunto in un altro luogo sconosciuto, incontra un gruppo di persone che parlano di un narratore pazzo che fa delle rappresentazioni teatrali. Incuriosito, si reca ad assistere ad una di queste, mescolandosi tra il pubblico. Il dramma che si svolge è quello che si racconta nella seconda opera della trilogia, e cioè Nyktivói.


III.2 NYKTIVÓI

Nyktivói, è il nome della protagonista femminile del dramma, che viene rappresentato. Un tale nome ci riporta ai così detti ”Papiri magici greci” (1) , trovati in Egitto da un certo Giovanni d’Anastasi, risalenti all’inizio della nostra era, contenenti preghiere ed invocazioni alle varie divinità, tra cui una rivolta alla Luna, con l’epiteto di Nyktivói “grido notturno”: “accostati a me, divina signora, Selene dai tre volti…regina che porti la luce a noi mortali,tu che chiami dalla notte…” (2) . Come la dea Luna Nyktivói, nella religione egizia, ascolta le richieste dei propri fedeli, ed è guida dei defunti (3) , così nella trasposizione letteraria, con uguale ruolo ed uguale nome, la donna è l’ accompagnatrice di Legion il protagonista maschile, nell’oltretomba. Qui gli farà acquisire la speranza di fronte alla morte, prospettandogli, attraverso le immagini di corpi che si ricompongono, la risurrezione .

Dal punto di vista del contenuto, Nyktivói può essere suddivisa in tre sezioni: il racconto di Legion, l’incontro con Nyktivói, il dileguarsi delle due figure nell’aldilà.



Note:

1) Con questo nome si suole indicare un corpus molto ampio di testi provenienti dall’Egitto greco-romano, contenenti una grande varietà di formule, inni e rituali. I papiri venivano posti in pozzi, cimiteri, templi di divinità ctonie, sott’acqua o sotto terra, per cercare la protezione delle divinità terrestri, contrapposte a quelle celesti. Molti di questi papiri magici furono comprati presso un uomo di Tebe, all’inizio dell’800 dal greco-egiziano Giovanni d’Anastasi (1780-1860), diplomatico e collezionista, che poi le vendé in giro per l’Europa a diverse biblioteche.

2) Vedi K.Preisendanz, Papyri Graecae Magicae, 2 voll, Stoccarda, Teubner, 1974, I vol., pag. 119.


Nell’introduzione si vede il personaggio del treno che giunge in un ambiente avvolto nella penombra, un vero e proprio luogo teatrale: al centro, in fondo alla scena, per terra, degli uomini con dei cani; a sinistra un muro diroccato; di fronte una lampada blu; a sinistra verde; sul davanti della scena alcune donne in nero; tre di loro tentano di accendere il fuoco in un bidone tagliato; un uomo scava poco distante e pianta due croci; a destra, vicino ad un fosso, la carrozzeria di un’auto senza portiera con dentro una donna; sulla capotte un registratore; intorno altra ferraglia; sul muro, tracciate con lo spray, delle croci. Personaggi: Narratore, Coro, Legion, Nyktivói.

Inizia la prima parte del dramma raccontata da un narratore che, citando il Vangelo di Marco, introduce un uomo che “si trova in presenza di un coro, come a prendere parte ad un rito preparato per lui” (4). Si tratta di Legion, ci informa la voce narrante, l’indemoniato che vive giorno e notte sui monti e tra i sepolcri.



Note:

3) La luna è una delle tre divinità che costituiscono la dea Ecate. Essa è sempre rappresentata in forma triplice, tanto che il suo appellativo più frequente é “Triforme” o “Trivia” Per questa ragione era il nume tutelare dei trivi e delle porte. In quanto divinità del cielo era chiamata Selene (testa equina), della terra, Demetra (volto umano), degli inferi, Persefone o Ecate (testa di cane o serpente). Spesso era accompagnata da cani ululanti e per questo era detta Nyktivói. Considerata intermediaria tra mondo umano e divino, guida delle anime dei defunti, (i demoni) nelle regioni dell’aldilà, ne era la regina. Quando questi esseri senza pace ebbero connotazione negativa (si credeva infestassero sepolcri e crocicchi incutendo paura), l’orrore per loro toccò anche alla loro “domina”. I demoni-cani che accompagnano Ecate sono gli incubi e i fantasmi notturni che possono portare l’uomo alla pazzia. Ecate aveva il potere di rianimare ogni cosa e di risuscitare i morti. In quanto custode delle “porte” ella aveva facoltà di fare entrare ed uscire. Era la divinità invocata nei riti magici.

4) Dimitris Lyacos, Poena Damni,The first Death, with six masks by Friedrich Unegg. Tradotto da Shorsha Sullivan. Shoestring Press. Nottingham 2000, pag.VII.


Egli fa il resoconto della sua vita - viaggio, in deliranti monologhi: “la mia vita…… / è una conchiglia, si è infranta sotto il sole / quell’ombra che comincio a seppellire” (5) , più oltre espone la difficoltà del procedere: “…..sentivo / sacchi pieni di cocci ed io sotto, non so, procedevo / i gabbiani si impigliavano ai miei piedi, / mordevano e cadevo / in mezzo alla strada” (6) ; gli incubi notturni e diurni: “e quando di nuovo mi svegliavo / nuovi fantasmi si avventavano” (7) ; la difficoltà di vivere con gli altri: “vidi in seguito che non ce la facevo più / non li sopportavo intorno a me / girai per ogni luogo / mi sforzai di fermarmi in qualche città / passavo per strade piene di luce / piangendo” (8) ; dunque la decisione di vivere tra i morti dove ci sono quelli che amammo e ci amarono: “Qui tuttavia dove i morti stanno insieme / tornai, qui fissai la mia dimora / ” (9) .

Il Coro dal canto suo invita ad ascoltare le voci di quanti ci hanno preceduto; essi di notte, nel silenzio, se prestiamo ascolto, ci parlano: il loro grido ci prende e da sotto terra essi rivivono in noi. Anche la nostra anima, afflitta dal ricordo, resiste e soffre, fino a che “ la consunzione ci prenderà con sé come un angelo / dentro di lei riposano / tutti quelli che piansi” (10) e ci perderemo nella morte che, “come ragno cattura l’anima” (11) . Legion dice di ascoltare voci provenienti da sottoterra ed incomincia a scavare. A questo punto, annunciata da alcuni versetti della Lettera di San Paolo ai Corinzi, che parlano di “giorno di salvezza” (12) , compare il fantasma di Nyktivói.

Ella racconta di aver sentito scavare in superficie e di essersi svegliata per ritornare nel mondo della luce: “riempii il palmo di sabbia / salutai il mare dei morti / vidi un filo più scuro andare in fondo / tirai la sua cima / e ad una radice la legai” (13) . “La terra finisce in un mare di cadaveri”, esclama il Coro alla fine del suo racconto, ma, aggiunge, “anche la terra è un altro mare, duro” (14) . Attirato da lei, Legion entra nell’auto, si coprono alla vista con un separé; “rimasero in misere fondamenta amorevolmente coperte, a guardare nel fondo, dal fosso che stivava ancora le ceneri degli altri” (15) ; da lì affiorano i volti delle persone care per le quali “Dio ha preparato una nuova patria” (16) .



Note:

5) Dimitris Lyacos, Nyktivòi, libretto 5, CTL Hamburg 2001, pag. 10.

6) Ibid., pag. 11.

7) Ibid., pag. 11.

8) Ibid., pag. 11.

9) Ibid., pag. 11.

10) Dimitris Lyacos, Nyktivói, cit., pag. 12.

11) Ibid., pag. 16.

12) La Bibbia di Gerusalemme, Ed. Dehoniane Bologna 1989, Seconda Lettera ai Corinzi, cap. 6, 2, pag. 2486.

13) Dimitris Lyacos, Nyktivói,cit. pagg. 23-24.

14) Ibid., pag. 26.

15) Ibid., pag. 28.

16) La Bibbia di Gerusalemme, cit., Lettera agli Ebrei , cap.11, 14, pag. 2579.


Anche per loro: “si abbracciarono quanto più potevano, per un attimo avresti creduto che fossero diventati un sol corpo (17) . La voce narrante ci racconta la fine di Legion mentre svanisce Nyktivói. La sua voce, che continua a provenire dal registratore, esorta: “Quando ti imbatti in cimiteri fuori mano / l’acqua ti conduce oltre in giù / una bocca che invecchiò nell’arsura / manda quanti ebbero sete / e tu vieni, bevi, bevi / di nuovo hai sete / di coloro che sono di sopra / e poi ascolti / si spegne un altro / e cadendo / per vivere insieme, mescola il corpo nella tenebra; / fuori il sole nel grigio impasto, ove / si dissolvono le visioni risveglia un verme, / qui, sotto il sudario appare / il bagliore, ancora verde, poi fuoco / questa è la fine (18) . Le parole di Nyktivói e del narratore dichiarano la completa unità di tutti gli uomini nell’aldilà. “La pioggia mescolò l’uno all’altro, spingendo il sangue che la sua gola aveva versato, sciogliendo l’argilla dalla faccia di lei” (19) . Il dramma si conclude con la citazione della Lettera di San Paolo ai Colossesi che assicura la risurrezione: “Siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con Lui nella gloria” (20) . La figura di Nyktivói è servita da guida spirituale ed ha ridato speranza al protagonista. Gli uomini possono dunque affidarsi alla morte con una prospettiva di salvezza.



Note:

17) Dimitris Lyacos, Nyktivòi , cit, pag. 32.

18) Ibid ., pag. 37.

19) Ibid ., pag. 42.

20) La Bibbia di Gerusalemme, cit., Lettera ai Colossesi, cap. 3, 3 - 4, pag 2532.


III.3 O PRÓTOS THÁNATOS

Potrebbe sembrare, a prima vista, che non ci sia legame tra O Prótos Thánatos e l’ opera precedente, invece, per scoprire il nesso, basta ricordare che esso è il titolo del libretto, trovato in treno e messo insieme alla Bibbia e agli altri appunti, dal protagonista di Z 213 Éxodos, divenuto spettatore in Nyktivói.

Quanto al titolo, anche quest’opera della trilogia ha un riferimento al tema religioso di morte - risurrezione; si tratta di un passo dell’Apocalisse di San Giovanni, là dove si parla di prima e seconda morte e di Giudizio Universale (1) . É evidente dunque che argomento dei brani poetici non è la poena damni, o| deuéterov o| qaénatov , alla quale Nyktivói ha in certo qual modo risposto lasciando l’anima nell’aldilà, tra luce e tenebra, con la speranza di risurrezione, bensì la poena sensus, il prw%tov qaénatov , la morte fisica, la consunzione del corpo che va, per gradi, verso la sua fine. Questa gradualità ci mostra nei monologhi - immagini le fasi del venir meno dell’unità dell’ego, corpo e mente. Contemporaneamente alle mutilazioni fisiche procede infatti il delirio mentale, con allucinazioni e flussi di coscienza manifestati fino a quando la mente non connette più e assistiamo alla frantumazione della razionalità in un linguaggio faticoso e balbettante.



Note:

1) Apocalisse di Giovanni , a cura di A. Wikenhauser, Testo a fronte, BUR, Mi. 1983. XX, pag. 173, 12-15. “ Vidi anche i morti, grandi e piccoli, ritti davanti al trono, e vennero aperti dei libri. E un altro libro venne aperto: quello della vita. I morti vennero giudicati in base a quanto stava scritto nei libri, secondo le loro opere. Il mare poi restituì i morti che in esso riposavano, e la morte e l’Ade restituirono i morti in essi; essi vennero giudicati secondo le opere sue. E la morte e l’Ade furono gettati nell’abisso di fuoco; questa, l’abisso di fuoco, è la seconda morte. E chi non fu trovato scritto nel libro della vita venne gettato nell’abisso di fuoco”.


Al culmine della disgregazione, un attimo prima del buio totale, un meccanismo strano strappa l’individuo alla morte, lo proietta nello spazio riducendolo alla dimensione di un puntino, di un seme, in un luogo che non è né cielo né terra, né vita né morte, quasi in attesa di poter ritornare, chissà, un giorno a rivivere.

Il testo di O Prótos Thánatos, tre citazioni e quattordici brani in versi e prosa, non è certamente dei più semplici, sia perché ci troviamo di fronte ad immagini, orride e cupe, espresse in una lingua ed espressioni non usualmente poetiche, all’uso di metafore inaspettate, squarci di memoria, mancanza di punteggiatura, di nessi logici ed esplicativi; sia perché la suddivisione in immagini - monologhi disorienta e lascia incerti sull’identità dell’individuo descritto, sulla sua unicità o molteplicità, come pure su chi descrive le fasi della corruzione fisica, se cioè si tratti di una voce narrante esterna o dello stesso uomo mutilo che vede sfarsi le proprie carni, ricorda, delira. Il testo non fornisce alcuna indicazione riguardo a questi interrogativi; è dunque lasciata al lettore la possibilità di immaginare che a leggere il testo possa essere lo stesso personaggio che l’ha trovato, o chiunque altro ne sia venuto in possesso, o noi che lo abbiamo davanti agli occhi, e che a parlare siano più uomini in differenti stadi di corruzione, o semplicemente quello straccio d’uomo che, comparso nel primo quadro “relitto del mare”, si salva in un indefinibile punto dell’universo.

Si conclude in questo modo, con la scoperta della speranza, la “storia” inventata da Lyacos e ci accorgiamo che un filo rosso, di natura religiosa, procede dall’inizio alla fine e collega, grazie ai riferimenti alla Sacra Scrittura, le tre opere facendone un unicum. Una storia che, visto l’esordio e la conclusione, è come genere letterario una commedia umana, seppure sui generis.


IV. COMMENTO DI O PRÓTOS THÁNATOS

IV. 1 LE TRE CITAZIONI
IV. 2 TESTO GRECO. TRADUZIONE A FRONTE IN LINGUA SPAGNOLA ED ITALIANA
IV. 3 UNA POSSIBILE INTERPRETAZIONE


IV. 1 LE TRE CITAZIONI

Le tre citazioni che precedono i 14 brani, in prosa e versi, sono già testo, perché rappresentano una spia molto importante per tentare di conoscere l’autore e comprendere il suo messaggio, ancor più che non con la sola conoscenza di Z 213 ÉXODOS e la lettura di NYKTIVÓI. La citazione dalla Logica di Hodges, che Lyacos chiaramente fa propria, pone subito in evidenza il problema tra “originalità” e “ordinarietà, convenzionalità”. Il “Nulla in questo libro è originale, se non forse per errore” (1) , dichiara in modo perentorio che altri, prima di lui, hanno percorso il cammino che egli si accinge a concludere. L’esito del “viaggio” pertanto, reale o metaforico, non dovrebbe presentare alcuna novità, né per quanto riguarda il mezzo di locomozione (la mente che indaga), né per quanto riguarda la meta, cioè la scoperta dell’essenza delle cose, del senso del vivere. Ammesso che nel “libro” ci sia qualcosa di diverso, di particolare ed originale, il poeta sembra non volerlo attribuire alla consapevole volontà di deviare dal cammino segnato da altri, ma, (non sa neppure lui), ad un errore che può esser capitato “fortuitamente”. Questa citazione, separata dalle altre due, sembra una dichiarazione in grado di evitare a priori, le critiche di chi potrebbe accusarlo di riproporre un “già visto”, con, in più, il sottile suggerimento che il suo scritto potrebbe contenere una qualche originalità.



Note:

1) Hodges W., Logic, London Penguin Philosophy 1977, pag. 9.


La seconda citazione, dall’Odissea di Omero (2) , trova una sua intrinseca giustificazione. Viene presentato Odisseo, il viaggiatore per antonomasia, il capostipite degli innumerevoli Ulisse della storia e della letteratura mondiale (cioè degli eventi storici e della loro trasposizione artistica), il simbolo dell’intera umanità protesa alla conoscenza, vista come felicità.

Ha poca importanza che Ulisse viaggi per terra e per mare, (“ pollw%n de a\nqrwépwn ei&den a\éstea kaì noéon e\égnw ”) (3) per seguire “virtute e conoscenza”, o che il viaggio si svolga nei meandri, altrettanto tortuosi ed insidiosi della mente; il fine è sempre quello di “sapere”, “scoprire” il perché ultimo del mondo, quali sono i presupposti trascendenti del suo esistere. Il viaggio del nuovo Ulisse, “personaggio che in stile postmoderno si adopera per creare il mondo che esplora” (4) , è un viaggio che si conclude sempre tragicamente, perché la conoscenza totale, profonda, è negata. La realtà nel suo perenne divenire non si lascia intrappolare da categorie mentali che la vorrebbero fissare in definizioni universali; l’uomo è un essere incompleto, mutilo, un relitto dopo il naufragio o addirittura un “aborto che muore prima ancora di aver raggiunto la nascita” (5) .

Il “viaggio” che l’uomo sente come impellente necessità della propria mente è una maledizione perché si identifica con la constatazione di non poter attingere verità, certezze; se felicità è sapere, ignorare è infelicità.



Note:

2) Omero, Odissea, Testo a fronte, Trad. R. C. Onesti, Enaudi Edit., Torino 1968, libro XIX, vv.167-170, pag. 533.

3) Ibid., libro I, v. 3, pag. 3.

4) Robert Zaller, Recent translation from Shoestring Press, The journal of modern greek studies, vol. 19, John Hopkins University Press 2000, pagg.283-286.

5) Robert Zaller, cit, pagg. 283-286.


La grandezza e il limite tragico dell’uomo stanno nella consapevolezza che egli non può andare oltre i limiti del fenomenico e nel mettersi, ciò nonostante, in viaggio. La richiesta di Penelope all’ospite, sotto le cui spoglie si nasconde lo stesso Odisseo, “dimmi la stirpe, donde tu sei” (6) , getta l’eroe nello strazio. Come può rispondere l’ “uom di multiforme ingegno”, come raccontare le mille peripezie, le avversità e le sofferenze (“ pollaé phémata ” ) creategli da una natura ostile, dagli uomini e dagli dei? Eccolo allora inventarne una delle sue “diceva parlando molte menzogne simili al vero” (7) . Di fronte a Penelope c’è uno straccio d’uomo, non l’eroe glorioso, l’astuto distruttore di Troia. Lyacos fin dall’inizio ci presenta un relitto del mare alle prese con il racconto delirante della sua progressiva dissoluzione fisica e mentale.

Il poeta fa proprio anche il contenuto della terza citazione (8) , tratta dall’opera “ Perì fuésewv ” di Parmenide di Elea (9) . Nel Proemio, che abbiamo grazie ad una lunga citazione di Sesto Empirico (10) , si racconta un mito. “Esso narra come Parmenide, auriga di un cocchio, sia stato condotto da cavalle ardimentose, capaci di portarlo ovunque il suo coraggio volesse, lungo la via del nume, dove lo hanno guidato le fanciulle figlie del sole, lasciandosi dietro le case della notte e andando verso la luce, fino ad una grande porta che separa la strada della notte da quella del giorno. La dea della Giustizia, custode delle chiavi di tale porta, consente ad aprirla, accoglie con dolcezza l’auriga, assicurandolo che, se è giunto fin là, non è per un destino avverso, ma grazie al favore della dea ordinatrice del mondo, sicché gli sarà data ogni sapienza riguardo al mondo” (11) .

Tralasciando altre interpretazioni del mito (che vorrebbero Parmenide inventore dello stesso, per dare valenza divina al proprio pensiero, o che il mito non sia altro che un viaggio reale nella città di Elea, di cui il filosofo era uomo politico e legislatore), convinzione prevalente è che il mito narrato sia allegoria dell’ascesa dell’uomo dall’ignoranza al sapere. Da questo punto di vista allegorico, “le cavalle rappresentano gli impulsi che spingono l’uomo alla conoscenza, la via del nume è proprio questa via, le fanciulle figlie del sole sono i pensieri che cercano la verità, la notte che esse lasciano dietro altro non è se non l’errore, la luce è la verità, la porta indica la demarcazione tra ignoranza e sapienza. La stessa dea della Giustizia sarebbe allegoria della verità che si svela alla ragione” (12) .

Sulle tracce di Parmenide Lyacos è dunque il discepolo che segue la via verso la verità, tenendo presente che l’ “essere” si vela del “non essere” delle apparenze.



Note:

6) Omero, Odissea, cit., libro XIX, v.162, pag. 533.

7) Ibid., v.203, pag. 535.

8) Parmenide, Poema sulla natura, a cura di G. Reale e L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991, Frr. 28 B 1. 1-2, pag. 11.

9) Parmenide:filosofo greco nato ad Elea nella prima metà del V sec. a. C. La città fu fondata dai Focesi nel VI sec. a.C., sulla costa tirrenica della Campania. Parmenide è il fondatore della scuola filosofica detta “eleatica”. Il nucleo della sua filosofia consiste nell’attività speculativa, volta a distinguere essenza ed apparenze, verità ed opinioni.

10) Sesto Empirico: filosofo e medico greco del II sec. d. C. L’appellativo di Empirico gli fu attribuito perché nella sua professione di medico preferiva attenersi alla esperienza che non a schemi teorici. È esponente della

corrente filosofica dello scetticismo.

11) M. Bontempelli, F. Bentivoglio, Il senso dell’essere nelle culture occidentali, Trevisini Ed., Milano 1992, vol. 1, pagg. 31-32.

12) Ibid ., pag. 32.


A questo punto il binomio verità – apparenza equivale al binomio immutabilità – divenire; l’essere è immutabile, le apparenze (che trovano espressione nelle opinioni degli uomini) sono il divenire. Sennonché l’uomo, nella vita individuale ed universale, sperimenta il “ paénta reéei ”, ha a che fare con le entità, gli oggetti, “ taè a\ntikeiémena ”, che gli si oppongono e non si lasciano penetrare nell’essenza. L’esito della “mente che indaga”, anche del cerebralismo più spinto, è l’accumulo di verità non vere, di forme ed apparenze che, da un lato danno all’uomo la percezione della propria “invalidità”, del non essere completo, dall’altro che tutto è in movimento, egli stesso ed il cosmo, verso un inspiegabile destino di corruzione e di morte.

Il testo di Lyacos che affrontiamo, è un testo di poesia filosofica, frutto di creatività, (seppure cupa ed orrida nelle immagini) e di riflessione.

“Possiamo prendere queste due citazioni assieme ed usarle come apertura per un credo poetico? Lyacos è ansioso di presentarci una visione dell’esistenza umana così cruda che corre il rischio di alienarci con la sua repellente oscurità, ma, proprio nell’atto di rappresentarla, la riveste di affascinanti colori estetici” (13) .



Note:

13) S. Sullivan, The punishment of loss, a note on Dimitris Lyacos’ The First Death, articolo edito soltanto su Internet.


IV. 2 TESTO IN LINGUA ITALIANA
LA PRIMA MORTE
PREMESSA ALLA TRADUZIONE

C’è perfetta sintonia tra i traduttologi nell’affermare che tradurre non è facile, neppure quando si tratta di testi scientifici o tecnici, di testi cioè che si servono per lo più di parole che hanno un solo significato e sono prive di sfumature. Il problema si complica quando il testo è narrativo o saggistico; in questi casi, dicono, si può porre rimedio alle difficoltà apprendendo una “tecnica della traduzione”, una specie di regole del mestiere che consente di raggiungere un buon livello. Data per scontata la padronanza della lingua madre ed una buona conoscenza della lingua in cui o da cui tradurre, al traduttore è richiesta, dicono ancora gli esperti, la capacità di inserirsi tra due mentalità, confrontando continuamente le lingue e i modi di dire, contestualizzando lessico e frasi per averne la piena comprensione. Se dal campo della narrativa, o della saggistica, si passa a quello della poesia, al traduttore sono richieste altre doti, di intuizione e creatività. Egli, tenendo presente che un’opera tradotta diventa l’originale per chi la legge, deve sentirsi non autore, ma strumento di chi l’ha scritta e che, per raggiungere tale obiettivo, è indispensabile che s’ immedesimi in lui.

Queste norme teoriche, ricavate dalla lettura di alcuni testi in uso nelle Università (1) , si è tentato di tenerle presenti, nei limiti delle possibilità, durante la traduzione di O Prótos Thánatos, procedendo con cautela ed ascoltando i suggerimenti delle docenti di Spagnolo e Neogreco.

Note:

1) Saggio del professore Graziano Benelli, Tradurre verso l’italiano, e della prof.ssa Manuela Raccanello, La traduzione d’autore


All’inizio di questo lavoro ero all’oscuro di chi fosse Dimitris Lyacos, di che cosa parlasse nei suoi scritti. Mi sono procurato i testi per rispondere, innanzitutto, alla seconda domanda, convinto che avrei trovato qualche risposta anche alla prima. Il titolo della trilogia e quelli della seconda e terza opera non lasciavano trapelare nulla; forse, dopo ripetute letture, avrei cominciato a capire…ed è stato così. Ho colmato la mancanza di notizie sul contenuto di Z 213 Éxodos, interpellando direttamente l’autore. I contatti successivi mi hanno consentito di avere notizie più precise circa la sua biografia e la sua attività di scrittore. La scoperta del filo narrativo della trilogia mi ha spinto a rileggere più volte Nyktivói e O Prótos Thánatos, mentre si è andato chiarendo il significato di termini, espressioni, citazioni, registrati durante i primi tentativi di traduzione. Il lessico di Lyacos, sostanzialmente quello della lingua parlata dalle persone colte, non presenta insormontabili difficoltà. Lo stile, ora conciso, (frasi brevi ed ellittiche del verbo), ora ampio, (periodi lunghi, presenza dell’enjambement), ora incalzante (sfilza di parole e frasi senza alcun nesso), adatto di volta in volta agli stati d’animo del protagonista, l’uso di espressioni ed immagini inusuali, hanno creato oggettivamente qualche problema. Rinviando alla V parte della tesi per indicazioni più dettagliate sulle caratteristiche della poetica, qui basti precisare che: 1) in calce al testo greco sono state aggiunte delle note esplicative; 2) nelle traduzioni sono stati inseriti segni di interpunzione ed è stata fatta la costruzione diretta della frase nei casi in cui ciò è stato necessario; 3) le immagini sono state riproposte nella loro chiarezza, o enigmaticità, come nell’originale. “Ogni spiegazione di una poesia è, credo, folle”, disse una volta Seféris…….e parlava non della poesia degli altri, ma della propria.

I

Il mare d’acciaio. La luna silenziosa come dolore nella profondità del cervello. Corpo trascinato qua e là sulla roccia come alga o tentacolo inanimato , frutto dell’utero di una nave squassata dai venti, palude insanguinata e carnosa. La mano sinistra tagliata fino alla radice, la destra fino in cima all’avambraccio, bastone fradicio delirante nei polmoni dell’acqua. Della bocca rovinata rimaneva solo una ferita che si chiuse piano piano. Degli occhi una luce opaca. Gli occhi senza palpebre. Le gambe fino alle caviglie - senza tarso. Spasmi.

II

Condanna del mare, vincoli di frammenti di singhiozzi
sotto le palpebre incrinate, di un asciutto cratere
pasto invisibile
- profanazioni di amori, processioni ai sensi
cadenti, disarticolate melodie, lava
di fiumi decapitati
lame delle onde in profondità nella cortina;
crescita di una clessidra, epidemia
sfrenate visioni di eroi già piegati
nelle vene ubriache della luce
la tempesta che sverna negli acquitrini
- il ritorno con le foglie cadute
di un corpo fatto a pezzi in primavera.


III

Mascelle morte che stringono torrenti
denti spezzati dove disseppellì le loro radici
il fremito della vittima prima di piegarsi al gancio,
intorno le impronte della frenesia e la desolazione
in mezzo ai vecchi rami dell’ecatombe si aprono come rete verso un cielo anemico
che come un bacio tremante pende dalle tue labbra;
armate di morti che sussurrano senza sosta
in un cimitero infinito, dentro di te
e tu non puoi più parlare, soffochi
e il dolore a te familiare tenta sbocchi nel corpo impenetrabile
ora non puoi più camminare
- ti trascini, là dove la tenebra è più fitta
più tenera, carcassa
di un animale sventrato
un piccolo mucchio di ossa che sanno di tana tu abbracci
e ti addormenti.


IV

Possa tu viaggiare nei rimasugli delle feste
come vello che sventola su un patibolo artigianale,
svegliarti in mezzo ai frammenti della notte
con l’amarezza di Efialte in bocca
gli occhi che bruciano come il letto dell’ammalato
la consapevolezza che tutti sono annegati dentro di te
e intanto che si tende il cordone ombelicale
- e senti la mano celeste che ora
tira con tutta la forza -
domandati senza respiro:
quando giungerai all’estremo
corpo defraudato, mutilo abbraccio
quando il boia ti metterà nel mucchio
anima storpia vecchia depredata dalla ricerca,
sradicata dal pianto,
quando esalerai l’anima in mezzo
al vomito della tua infelicità?
(E vieni accolto nei fiori
dell’albero cui fosti impiccato).


V

Notte serena. Disperazione.
I demoni si sono calmati. Ululala Luna. I sentieri memoriali della flagellazione. Cani scannati nuotano in fossati appassiti. Congelano ossa e squame piene di voluttà. Sequenza di un volto senza bocca. Sete di risurrezione. Mi battezzo nei fossi del lutto; baci neri e lingue gelate sopra il mio corpo infetto. Impenitente mi rizzo, sacrilego boccheggio, nei recessi del tuo corpo verso sangue. Immacolata trabocca rugiada nell’alba del tuo abbraccio.
Alba serena. Disperazione.


VI

Irriconoscibile per i colpi dei coltelli
corpo fatto a pezzi in terreni selvaggi
il fetore del cuore silenzioso,
pesante, morto male ,
braccio cinereo, pala errante
che sfiora campi di cicatrici sull’altra spalla
nasconde per un attimo la nudità della mutilazione,
si alza fino alla bocca
che come recipiente incrinato, asciutto
ma sazio di dolore
porta alla luce un grido ultraterreno
di pazzia.


VII

Nelle sartie insanguinate del cervello
ci sono i padiglioni interni ed il sisma
spumeggia larva insaziabile negli sbocchi
del cranio
ed altri vermi che impazzano
ai piedi della tomba, ceppo
dove si avventano uccelli dalle ali trasparenti
occhi bruciati vista a mosaico
urlando toraci svitati
e la gioia bellicosa del sole sul rosso
cunicolo - pugnale senza becco
paralizzato invasamento incorona
frange piene di luce ferite,
labbra frantumi liberatori
ondeggiare di serpenti, membra che si scollano
spingono indietro la carne nel morto
cranio che geme inghiottendo
ed il dolore - draga
scava incessantemente
scuotendo
le insanguinate sartie del cervello.


VIII

Attracco parola ultima e
rotta là dove si piegava il nostro volto
là dove incidevano letti arrugginiti
- immagini pregne d’acqua che si dissolvono
con il sonno per ormeggio e cero che invecchia
e si capovolge per i lamenti
l’amico abbraccio che si pietrificò per sempre
in una vena ove la morte stilla
cenni svaniti e cannibale amplesso
e baci sulla indifesa
figura del santo che si battezza nella febbre
e svuota gli otri del nostro corpo
e scarica rovine di tessuti
visceri
primi ornamenti dell’abete allora
mentre nidificavamo sotto la torba
del sogno silenziosamente
nella radice della malattia che apriva
strada e porta spalancata sulla tenebra, luce profezie certe, turbini che soffocavano i promontori
ed il luogo diventava rugoso senza sentieri
e gettavamo l’ancora nelle nostre viscere
e le catene mietevano i sensi
e si spezzano i legami
e gli antenati veleggiavano nella dilatazione della pazzia
fitti fasci che si stringono insieme
nell’economia della condanna,
ombre indescrivibili e straziate
e la grazia dell’asfissia a loro data
mentre galoppa massa incandescente la puleggia dei ricordi
la deposizione dei miei anni infantili
e le offerte che svelano la frenesia
mollica delle stelle
feretri sotto la pioggia
foreste chine nell’adolescenza
orgasmi solitari amanti invalidi
e l’impareggiabile desolazione della loro bocca lasciva.


IX

Altare costiero, mendicità aggobbita, onde che si vendicano e sartiame lacerato al posto delle foglie di vite. Il lamento dell’acqua digerito dentro le tane dei serpenti, il latrato del gabbiano che si dibatte - urlo sacrificale, pesci avvolti in lenzuola funebri, tenebra assoluta di una gola bloccata da feccia e muco. L’isola completamente nuda, giaciglio del sonnambulo, letto sfatto d’ospedale e la sua secca pelle invecchiata, la cenere che cicatrizza le infiammate cavità e i resti del sacrificio. La notte che pesca nelle orride cataratte della malattia vesti luttuose, incubi erranti e lontani ricordi di naufragi da poco riesumati, fantasmi del nero mare, cadaveri di amici intimi, l’immagine infranta dell’amante. Il petto affondato - prima che ritorni agli amari prati del fondo. Offerte di ogni sorta di frutti.

X

Poiché non puoi rimanere di più
poiché il tuo sguardo lascia che le immagini guizzino
finché il lago si congeli, la tua mano smetta
di rovistare gli intestini e la calda cenere
cercando un’ ascia inutile
e lascia che il mare gratti la crosta;
e così sia.
Poiché tu cerchi la montagna ed i chiodi sotto le stelle
inclinando croci nere verso il trionfo
e di nuovo ti trascini e
ti arrampichi nelle ferite del terreno
sputando zolfo che cauterizza le tue membra,
ansimando come un tempo sopra le prostitute,
abbeverando le secche lascive
e il gracchiare degli avvoltoi segue
il miasma; fanatico dei monti.
E i pungiglioni bagnati degli scorpioni
mostrano la strada
ed il cervello una mappa immersa nel vino
e l’anima dentro la museruola
che allatta
il lontano orizzonte del dolore.


XI

Velo della sera, spoglia di una città espugnata. Stanze buie di linfatici alberghi, resti abbandonati in preda al sogno. Nell’inarrestabile emorragia delle cose lotta ancora con la morte l’ultimo lampo dello sguardo. Scoscese arterie silenziose, baci infangati - ricordi di crani rovesciati ai bordi dei viali. Triste la salmodia dei topi nelle chiese. L’agonia contagiosa di macchine massacrate. Ali ridotte in cenci, indomite; trappole infallibili. L’immutabile volta del cielo lebbroso fino agli estremi confini.


XII

Perenne processione nelle catacombe. Esauste visioni lottano in sconvolti sotterranei senza uscite. Va verso i seni dei pipistrelli la prima vertigine. Un’ulcera vivente e un cerchio di conchiglie intensificano la nausea. Una luce incalza. Riverbero atrofizzato delle cose terrene piomba balbettando nel pantano. Corpi vuoti irraggiungibili nei rifugi della morte. Sacro silenzio affrancato. L’eco degli strazi incastrati scava l’umido petto della città. Il supplichevole strepito delle cloache eterna memoria di una malattia migratoria. Dall’alto il lontano frastuono di frane che si susseguono. Una prua sotto la neve salva il lamento al di là del fulmine.


XIII

Fiori che imputridirono per la sazietà del fortunale
nella cripta dove non hai luogo o modo di entrare
e ti inginocchi e cadi ti prostri all’entrata
davanti a mirti che pendono sciogliendosi nelle acque reflue dell’omicidio
finché svieni nelle unghie segrete del vespro
e finisci nei frigoriferi, curvo nell’angolo del focolare
inghiottendo ustioni
e vengono a sedersi accanto a te
piangendo da dentro la carena delle navi
candelabri che furono uccisi
amici mutilati mani e piedi sotto le ascelle
e viso poltiglia di carne umida che bolle
eruzioni una dopo l’altra chiave arroventata che
si gonfia nelle cavità degli organi sensori
incenerendo idee
spazzando via l’ordine dell’espressione
lasciando soltanto il continuo tentativo dello scongiuro
le labili aggrovigliate estasi
capelli bile ed escremento
brama fionda muco risate e bestemmie
ora che ci avviciniamo gridando di gioia e sentiamo
come canta il gelido torchio
del demone vendicatore
in divisa.

L’ingiusto continui a fare ingiustizia, il sozzo continui ad insozzarsi, il giusto continui ad esercitare la giustizia, ed il santo continui a santificarsi.


XIV

Lenta salita dello scafo nel vuoto
deflagrazione di un monastero che avanza come rasoio
linea di navigazione tra il seme e la trappola
segni di venerabili siringhe, incaricate di
stimolare l’intuizione della Trascendenza,
primo ed ultimo porto la disinfezione dell’esilio
sul ponte nessuno, solo io, cercando vie d’accesso
e testando neuroni delatori
classificando significati, ravvedendomi in una lingua incomprensibile
e di nuovo tentando di mostrare lo scroscio di un mondo
che sale e scende le mura dell’esperienza,
una tragedia che viaggia imperturbabile
inferno senza dannati senza ritorno
strappando la membrana sforzandomi di trattenere
una voce familiare dallo stomaco della ciurma
in vuoti alveari che riposano
e tuttavia non giungo neppure a conoscere frammenti
vittime vaghe nella distanza e quanto io ricordo
non si dispiega più e la memoria bucata e logora
come gli abiti di un senzatetto sulla languente
coscienza e le rovine dell’articolazione e tuttavia
mi salvo, non nel mondo
né fuori di esso, ma nell’insussistente punto di collisione
e di distacco del mondo, là dove viene concepito il grido
si innesta il pistone
e le ruote
spingono istintivamente
il carrettino nell’infinito.



IV. 3 UNA POSSIBILE INTERPRETAZIONE

I

Il sipario si alza mostrando sullo sfondo un mare cupo; le sue acque sono color grigio acciaio; campeggia uno scoglio sul quale un corpo già parzialmente smembrato si trascina avanti e indietro, come le alghe che il mare deposita e riprende dalla battigia, o un morto tentacolo, o fradici relitti galleggianti di una nave colata a picco, che compaiono e scompaiono dalla superficie seguendo il movimento delle onde. L’orribile mutilazione negli arti inferiori e superiori, il volto deformato, la bocca ridotta a ferita che, mano a mano si richiude, gli occhi senza palpebre, che nella loro luce opaca non esprimono lucidità intellettiva, non ci consentono di definire questa figura “un uomo”. Sembra una visione da incubo notturno, da raccapriccio, irreale; una fantastica e terribile proiezione di una mente che vede fino in fondo l’essenza della condizione umana. Allo stesso tempo la descrizione non può non ricordare la statua infranta di un qualche dio o eroe, tanto spesso acefala o mancante degli arti che l’archeologia riporta alla luce; ma la menomazione nulla toglie alla divinità o alla grandezza del personaggio.

II

Immagini negative e quasi apocalittiche in lunga sequenza si snodano senza seguire un ordine che possa far pensare ad un procedere logico della mente. Più che le immagini, sconnesse fra loro e di difficile trasposizione in discorso, quello che in questa sezione è rilevante sono le impressioni e le sensazioni che esse provocano. La giustapposizione porta a coinvolgere tutti i sensi, ora singolarmente, ora collegati in un’unica espressione di sinestesia. Questa sezione che è piena di flussi di coscienza e di immagini staccate, di frenesia e di pazzia, come, ad esempio, quella di eroi piegati e trascinati via da fasci di luce che stordiscono, anziché dall’impeto di un fiume, si chiude con l’immagine della “tempesta che sverna negli acquitrini” e con il riferimento mitologico ad Orfeo, colpevole di opporsi al culto di Dioniso, squartato dalle donne tracie durante le grandi Dionisie, che si svolgevano tre Marzo ed Aprile.

III

Le immagini sono raccapriccianti: mascelle sigillate, denti spezzati sradicati dalla frenesia, simile a quella della bestia portata al sacrificio che non si rassegna a morire. Desolazione e morte, resti di sacrifici, cimiteri sterminati, un cielo anemico anch’esso. La morte è ovunque, dentro l’uomo che vorrebbe urlare il proprio dolore, ma vede vani i suoi tentativi per comunicarlo. Il corpo procede nella sua consunzione, le giunture degli arti non tengono più, non gli resta che trascinarsi come bestia morente nel più profondo della tana e lì rannicchiarsi attendendo la fine.

IV

La vita è come percorrere, alienato ed estraneo, un luogo dove si è svolta una grande festa, un aggirarsi tra i rifiuti di una piazza dopo il mercato. Vivere è essere in preda ad un incubo notturno, andare in giro febbricitante e delirante, sentire morire in sé tutti gli altri, chiedersi continuamente quando consegneremo alla morte il corpo putrescente e mutilo, nonché l’anima estenuata dalla ricerca vana del perché della vita. Pure, se non c’è un mondo trascendente, per l’uomo continua, anche se in uno stadio inferiore, una forma di vita che si inserisce nel ciclo naturale. Così egli diventa linfa, fiori e frutti, sia pure dell’albero che permise la sua impiccagione.

V

La condizione umana è dunque disperata; le vie intraprese testimoniano il calvario delle cadute e delle sconfitte; intorno un lago di sangue di cani scannati abbandonati nei fossi; pelle e ossa, resti un tempo pieni di vita e sazi di piacere, ora sono in preda al freddo della morte. L’immagine di un volto senza bocca genera l’idea di un ardente desiderio, irraggiungibile, d’acqua e di vita. Seguono ricordi tetri e raccapriccianti, come quella di baci neri sopra un corpo infetto, di memorie di autoerotismo e di rapporti sessuali negativi ed inappaganti. L’alba e la sera fanno da spettatrici passive alla disperazione dell’uomo.

VI

Il brano, attraverso le immagini di un corpo fatto a pezzi, ci fa percepire il fetore della consunzione; ci riporta ancora a quell’essere mutilato, nell’atto di sfiorare con il braccio le ferite che rigano la schiena. Il braccio, nel suo movimento, per un attimo nasconde la menomazione, poi si alza sulla bocca che, arida ma sazia di dolore genera un urlo di pazzia che non ha nulla di umano. “Un corpo normale che soffre un trauma così grave, pietosamente lo dimenticherebbe, ma questo corpo rimane capace di percepire ogni volgare insulto inflittogli, e attraverso l’agonia del sistema nervoso, che continua a procurare dolore, nonostante ne sia staccato” , prorompe in un grido, mai udito, di follia .

VII

Procede in parallelo la dissoluzione di mente e corpo. L’urlo segna il passaggio dalla descrizione fisica a quella anche mentale, al cervello, dove c’è il centro di ricezione. La materia cerebrale è paragonata a sartiame insanguinato; lo scuotimento genera larve che cercano un’uscita dalle aperture craniche; altri vermi infuriano in basso, ai piedi della tomba, come insetti che trovano pasto alla base del ceppo usato dal macellaio per tagliare la carne. Intanto il sole, pugnale, circonda una frenesia paralizzante, mentre il cranio

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